Sospeso, dilatato, infinito, rubato…in questi giorni così anomali per tutti e per ciascuno, gli aggettivi si sprecano, prolificano come il virus che in una manciata di settimane ha piegato un mondo che pensavamo invincibile e che fino a pochi giorni fa sembrava avere una miriade di problemi di cui occuparsi, decine di argomenti su cui confrontarsi e discutere. E tutto sembrava essere fondamentale, mentre oggi ci appare così lontano perché prioritario è diventato sapere quante sono le vittime, i malati, i posti in terapia intensiva. Quando ci fermiamo a pensare, allora, e solo allora, ricordiamo che dietro i numeri ci sono le persone che hanno, o avevano, una vita come la nostra, e che adesso lottano, o hanno lottato, per vivere o per permettere ad altri di farlo. Un mondo che si scopre disarmato e fragile anche solo di fronte alle abitudini stravolte e alle libertà negate, incapace di dare risposte ai suoi figli che vorrebbero tornare a scuola, ai loro genitori che temono per il futuro delle loro famiglie, ai nonni che più degli altri si sentono soli e indifesi. Un mondo in cui i confini sembrano un giorno confondersi nell’emergenza e nel dolore che ci affratella e il giorno dopo ergersi nuovamente per difendere un interesse particolare, che si chiami presidio medico o, ancor peggio, condizione economica. Ma anche un mondo dove ci sono già persone che hanno imparato, che non hanno paura e che ci stupiscono per la generosità e il rispetto degli altri che dimostrano e che ci scalda il cuore di fronte all’egoismo e alla miopia di pochi.

Ripenso al mondo in cui ho vissuto. Un mondo che ci ha visto estasiati e increduli andare sulla luna, impauriti e polemici attraversare il Vietnam e gli anni di piombo, assistere atterriti al rapimento Moro e all’omicidio Dalla Chiesa, sconvolti e terrorizzati dall’11 settembre… E ogni volta abbiamo detto che da quel momento la nostra vita sarebbe cambiata. E difatti la vita è cambiata. Peccato che l’uomo, e intendo tutti gli uomini, compresa chi scrive, è un animale che dimentica facilmente, fatica a tesorizzare l’esperienza passata e guarda avanti. Il che, in generale, è un bene (lo diceva anche Ungaretti, suggerendo, sia pur in tutt’altro contesto, Cessate d’uccidere i morti) perché ci permette di non restare ancorati ai nostri dolori e ai nostri sbagli, ma solo se ciò serve a rendercene consapevoli.

Di tutti gli aggettivi usati in questo momento storico, ce n’è uno completamente dimenticato: restituito. E’ il tempo che restituiamo a noi stessi e non più quello strappato ai mille impegni, sottratto frettolosamente per ascoltare distrattamente un figlio o un amico, ricavato faticosamente per concederci un cinema o il parrucchiere. E’ il tempo che è, o dovrebbe essere, per noi, per giocare coi nostri bambini e farci trascinare nel loro mondo senza imporgli il nostro, per ascoltarci e per guardarci, ma soprattutto per guardare l’altro che oggi siamo costretti a vedere solo attraverso lo schermo del cellulare o del computer. E meno male che la tecnologia ce lo permette. Ma mentre ce lo permette, ci costringe nello stesso momento a fare i conti con i limiti di questo incontro virtuale: riempie i silenzi delle nostre giornate, ma ci spezza il cuore perchè ci ricorda quello che ci sta negando, il contatto fisico, l’abbraccio di un figlio, le braccia tese di un bambino che non possiamo toccare. E allora costruiamo anche noi mondi fittizi, trasformiamo le nostre camere in palestre per condividere coi nostri amici, almeno virtualmente, esercizi fisici che tengano vivi il nostro corpo e la nostra mente, partecipiamo cene e confidenze per esorcizzare la solitudine (o la paura che ne abbiamo?) riproponendoci che poi, quando saremo fuori da questo tunnel sconosciuto e terribile, faremo tesoro del vissuto, daremo importanza a ciò che è veramente importante, in sintesi saremo diversi.

Ma quanto saremo diversi quando tutto questo sarà finito?

A.Fondi

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